Costantino Kavafis
TEODOTO
Costantinos Kavafis
Per rimanere
Forse l’una di notte,
l’una e mezza.
Un cantuccio di taverna
di là dal legno di tramezzo.
Nel locale deserto noi due, soli.
Lo rischiariva appena la lampada a petrolio.
E, stranito di sonno, il cameriere, sulla porta, dormiva.
Nessun occhio su noi. Ma sì riarsi ,
già ci aveva la brama,
Glie divenimmo ignari di cautele.
A mezzo si dischiusero le vesti,
scarse (luglio flagrava).
O fruire di carni
fra, semiaperte vesti, celere
denudare di carni… il tuo fantasma
ventisei anni ha valicato. E giunge,
ora, per rimanere, in questi versi.
Costantinos Kavafis
Sulle scale
Mentre scendevo l’ignobile scala,
tu entrasti dalla porta e per un istante
vidi il tuo volto sconosciuto e tu vedesti me.
Subito mi nascosi per non farmi vedere di nuovo e tu
passasti rapido nascondendo il volto
e ti infilasti nell’ignobile casa
dove non avresti trovato il piacere,
così come non l’avevo trovato io.
Eppure l’amore che volevi io l’avevo da darti,
l’amore che volevo – me l’hanno detto i tuoi occhi
stanchi e ambigui – tu l’avevi da darmi.
I nostri corpi si avvertirono e si cercarono,
il sangue e la pelle intuirono.
Ma noi, turbati, ci eclissammo.
Kavafis
La città
Hai detto: "Andrò per altra terra ed altro mare.
Una città migliore di questa ci sarà.
Tutti gli sforzi sono condanna scritta. E qua
giace sepolto, come un morto, il cuore.
E fino a quando, in questo desolato languore?
Dove mi volgo, dove l’occhio giro,
macerie nere della vita miro,
ch’io non seppi, per anni, che perdere e schiantare".
*
Né terre nuove troverai, né nuovi mari.
Ti verrà dietro la città. Per le vie girerai:
le stesse. E negli stessi quartieri invecchierai,
ti farai bianco nelle stesse mura.
Perenne approdo, questa città. Per la ventura
nave non c’è né via — speranza vana!
La vita che schiantasti in questa tana
breve, in tutta la terra l’hai persa, in tutti i mari.
Seferis
L’ultimo giorno
La giornata era fosca. Nessuno prendeva decisioni.
Soffiava un vento lieve: «Non è greco, è scirocco» disse qualcuno.
Qualche cipresso magro inchiodato al declivio e il mare grigio,
con lagune di luce, laggiù.
I soldati presentavano le armi quando venne una pioggia fina fina.
«Non è greco, è scirocco»: l’unica decisione che si udì.
Pure, lo sapevamo che l’indomani non avremmo avuto
più nulla, né la donna che beve al nostro fianco il sonno,
né la memoria d’essere stati uomini, una volta,
più nulla, l’indomani. «Questo vento dà l’idea di primavera» mi diceva l’amica
camminandomi a fianco e guardando lontano
«di quella primavera calò improvvisa
d’inverno presso il mare chiuso.
Tanto inattesa. Tanti anni passati. Come
morremo?» Girava una marcia funebre nella pioggia sottile.
Come muore un uomo? Strano, nessuno ci ha pensato.
E per chi ci ha pensato è stata come una reminescenza
di certe vecchie cronache
del tempo dei crociati o della naumachia di Salamina.
Pure la morte è una cosa che succede: come muore un uomo?
Pure la morte ognuno la guadagna, la sua morte che
non è di nessun altro:
questo gioco è la vita.
Declinava la luce sulla giornata fosca. Nessuno
prendeva decisioni.
E l’indomani non avremmo avuto più nulla: una totale
resa; neppure più le nostre mani;
le nostre donne schiave di stranieri alle fontane
e i nostri figli nelle latomie.
Camminandomi a fianco cantava l’amica una canzone mutilata:
«La primavera, e poi l’estate, schiavi…»
Venivano alla mente vecchi maestri che
ci lasciarono orfani.
Una coppia passò chiaccherando:
«La sera m’ha stufato, andiamo a casa,
andiamo a casa a accendere la luce».
Atene, febbraio 1939