Giosuè Carducci

Giosuè Carducci

Pianto antico


  • L’albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da’ bei vermigli fiori
    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora,
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.
    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l’inutil vita
    Estremo unico fior,
    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol piú ti rallegra
    Né ti risveglia amor.

Il bove


  • T’amo, o pio bove; e mite un sentimento
    Di vigore e di pace al cor m’infondi,
    O che solenne come un monumento
    Tu guardi i campi liberi e fecondi,
    0 che al giogo inchinandoti contento
    L’agil opra de l’uom grave secondi:
    Ei t’esorta e ti punge, e tu co ‘l lento
    Giro de’ pazienti occhi rispondi.
    Da la larga narice umida e nera
    Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
    Il mugghio nel sereno aer si perde;
    E del grave occhio glauco entro l’austera
    Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
    Il divino del pian silenzio verde.

Idillio Maremmano


  • Co ‘l raggio de l’april nuovo che inonda
    Roseo la stanza tu sorridi ancora
    Improvvisa al mio cuore, o Maria bionda;
    E il cuor che t’obliò, dopo tant’ora
    Di tumulti oziosi in te riposa,
    O amor mio primo, o d’amor dolce aurora.
    Ove sei ? senza nozze e sospirosa
    Non passasti già tu: certo il natio
    Borgo ti accoglie lieta madre e sposa;
    Ché il fianco baldanzoso ed il restio
    Seno a i freni del vel promettean troppa
    Gioia d’amplessi al marital desio.
    Forti figli pendean da la tua poppa
    Certo, ed or baldi un tuo sguardo cercando
    Al mal domo caval saltano in groppa.
    Com’eri bella, o giovinetta, quando
    Tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi
    Un tuo serto di fiori in man recando,
    Alta e ridente, e sotto i cigli vivi
    Di selvatico fuoco lampeggiante
    Grande e profondo l’occhio azzurro aprivi!
    Come ‘l ciano seren tra ‘l biondeggiante
    Òr de le spiche, tra la chioma flava
    Fioria quell’occhio azzurro; e a te d’avante
    La grande estate, e intorno, fiammeggiava;
    Sparso tra’ verdi rami il sol ridea
    Del melogran, che rosso scintillava.
    Al tuo passar, siccome a la sua dea,
    Il bel pavon l’occhiuta coda apria
    Guardando, e un rauco grido a te mettea.
    Oh come fredda indi la vita mia,
    Come oscura e incresciosa è trapassata!
    Meglio era sposar te, bionda Maria!
    Meglio ir tracciando per la sconsolata
    Boscaglia al piano il bufolo disperso,
    Che salta fra la macchia e sosta e guata,
    Che sudar dietro al piccioletto verso!
    Meglio oprando obliar, senza indagarlo,
    Questo enorme mister de l’universo!
    Or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo
    Mi trafora il cervello, ond’io dolente
    Misere cose scrivo e tristi parlo.
    Guasti i muscoli e il cuor da la rea mente,
    Corrose l’ossa dal malor civile,
    Mi divincolo in van rabbiosamente.
    Oh lunghe al vento sussurranti file
    De’ pioppi! oh a le bell’ombre in su ‘l sacrato
    Ne i dí solenni rustico sedile,
    Onde bruno si mira il piano arato
    E verdi quindi i colli e quindi il mare
    Sparso di vele, e il campo santo è a lato!
    Oh dolce tra gli eguali il novellare
    Su ‘l quieto meriggio, e a le rigenti
    Sere accogliersi intorno al focolare!
    Oh miglior gloria, a i figliuoletti intenti
    Narrar le forti prove e le sudate
    Cacce ed i perigliosi avvolgimenti
    Ed a dito segnar le profondate
    Oblique piaghe nel cignal supino,
    Che proseguir con frottole rimate
    I vigliacchi d’Italia e Trissottino.

+Nostalgia


  • Tra le nubi ecco il turchino
    Cupo ed umido prevale:
    Sale verso l’Apennino
    Brontolando il temporale.
    Oh se il turbine cortese
    Sovra l’ala aquilonar
    Mi volesse al bel paese
    Di Toscana trasportar!
    Non d’amici o di parenti
    Là m’invita il cuore e il volto:
    Chi m’arrise a i dí ridenti
    Ora è savio od è sepolto.
    Né di viti né d’ulivi
    Bel desio mi chiama là:
    Fuggirei da’ lieti clivi
    Benedetti d’ubertà.
    De le mie cittadi i vanti
    E le solite canzoni
    Fuggirei: vecchie ciancianti
    A marmorei balconi!
    Dove raro ombreggia il bosco
    Le maligne crete, e al pian
    Di rei sugheri irto e fosco
    I cavalli errando van.
    Là in maremma ove fiorío
    La mia triste primavera,
    Là rivola il pensier mio
    Con i tuoni e la bufera:
    Là nel ciel nero librarmi
    La mia patria a riguardar,
    Poi co ‘l tuon vo’ sprofondarmi
    Tra quei colli ed in quel mar. 

La sacra di Enrico V


  • Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli
    E fiorite a’ cimiteri son le pietre de gli avelli,
    Monta in sella Enrico quinto il delfin da’ capei grigi,
    E cavalca a grande onore per la sacra di Parigi.
    Van con lui tutt’i fedeli, van gli abbati ed i baroni:
    Quanta festa di colori, di cimieri e di pennoni!
    Monta Enrico un caval bianco, presso ha il bianco suo stendardo
    Che coprí morenti in campo San Luigi e il pro’ Baiardo.
    Viva il re! Ma il ciel di Francia non conosce il sacro segno;
    E la seta vergognosa si ristringe intorno al legno.
    Piú che mai su gli aurei gigli bigio il cielo e freddo appare:
    Con la pace de gli scheltri stanno gli alberi a guardare;
    E gli augelli, senza canto, senza rombo, tristi e neri,
    Guizzan come frecce stanche tra i pennoni ed i cimieri.
    Viva il re! Ma i lieti canti ne le trombe e ne le gole
    Arrochiscono, ed aggelano su le bocche le parole.
    Arrochiscono; ed un rantolo faticoso d’agonia
    Par che salga su da’ petti de l’allegra compagnia.
    Cresce l’ombra de le nubi, si distende su la terra,
    Ed un’umida tenebra quel corteggio avvolge e serra.
    Dan di sprone i cavalieri, i cavalli springan salti:
    Sotto l’ugne percotenti suon non rendono i basalti.
    Manca l’aria; e, come attratti i cavalli e le persone
    Ne la plumbea d’un sogno infinita regione,
    Arrembando ed arrancando per gli spazi sordi e bigi
    Marcian con le immote insegne per entrare a San Dionigi.

    Viva il re! Giú da i profondi sotterranei de la chiesa
    Questa voce di saluto come un brontolo fu intesa:
    E da l’ossa che in quei campi la repubblica disperse
    Una nube di fumacchi si formava, e fuori emerse
    Uno stuolo di fantasmi: donne, pargoli, vegliardi,
    Conti, vescovi, marchesi, duchi, monache, bastardi;
    Tutti principi del sangue: tronchi, mozzi, cincischiati,
    In zendadi a fiordiligi stranamente avvoltolati.
    Entro i teschi aguzzi e mondi che parean d’avorio fino
    Luccicavano le occhiaie d’un sottil fuoco azzurrino.
    Qual brandiva, salutando, un cappel bianco piumato,
    Con un gracil moncherino che solo eragli avanzato;
    Qual con una tibia sola disegnava un minuetto;
    Qual con mezza una mascella digrignava un sorrisetto.
    Tutt’a un tratto quel movente di maligni ossami stuolo
    Scricchiolando e sgretolando si levò per l’aria a volo;
    Ed intorno a l’orifiamma dispiegante i gigli gialli
    Sgambettando e cianchettando intessea carole e balli,
    Ed intorno a l’orifiamma sventolante i gigli d’oro
    Sibilando e bofonchiando intonava questo coro.
    — Ben ne venga il delfin grigio nel reame ove a’ Borboni
    Né pur morte guarentisce fide o pie le sue magioni.
    Passerem dal Ponte Nuovo. Venga a scior la sua promessa
    Co ‘l re grande che Parigi guadagnò per una messa,
    E nel marmo anche par senta co’ mustacchi intirizziti
    Caldo il colpo e freddo il ghiaccio del pugnal de’ gesuiti.
    Marceremo a Nostra Donna. Mitriati e porporati
    Tre arcivescovi i loro sonni per accoglierne han lasciati.
    Su l’entrata sta solenne con l’asperges d’oro in pugno
    Quel che tinse del suo sangue gli arsi lastrici di giugno.
    In disparte ginocchioni veglia a dire le secrete
    Quel che spento fu in sacrato per le mani d’un suo prete.
    Benedice la corona del figliuol di San Luigi
    Quel che giacque sotto il piombo del comune di Parigi.
    Tristi cose. Al men tuo padre (son cortesi i giacobini)
    Nel palchetto d’un teatro morì al suon de’ violini.
    Coprì l’onda de l’orchestra la real confessione,
    Salí Cristo in sacramento tra le maschere al veglione.
    Farem gala a quel teatro noi borbonica tregenda:
    Da quel palco (Iddio ti salvi!) move, o re, la tua leggenda. —
    Cosí strilla sghignazzando via pe ‘l grigio aere la scorta.
    Ma cavalca il quinto Enrico dritto e fermo in vèr’ la porta.
    Su la porta di Parigi co ‘l bacile d’oro in mano
    A l’omaggio de le chiavi sta parato un castellano.
    Ei non guarda, non fa cenno di saluto, non procede:
    Un’antica e fatal noia su le grosse membra siede.
    Erto il capo e ‘l guardo teso, ma l’orgoglio non vi raggia:
    Una tenue per il collo striscia rossa gli viaggia.
    Non pare ordine o collare che il re doni al suo fedele:
    Non è quel di San Luigi, non è quel di San Michele.
    Al passar d’Enrico, ei move a test’alta e regalmente;
    Fende in mezzo il gran corteggio: ciascun vede e niun lo sente.
    È a la staffa già d’Enrico; ma non piega ad atto umíle,
    E tien dritto e fermo il collo mentre leva su il bacile.
    — Ben ne venga mio nipote, l’ultim’uom de la famiglia!
    Queste chiavi ch’io ti porgo fur catene a la Bastiglia.
    Tali al Tempio io le temprava. — Con l’offerta fa l’inchino.
    Ed il capo de l’offrente rotolava nel bacino;
    Ed il capo di Luigi con l’immobile occhio estinto
    Boccheggiante nel bacino riguardava Enrico quinto. 

Davanti a San Guido


  • I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
    Van da San Guido in duplice filar,
    Quasi in corsa giganti giovinetti
    Mi balzarono incontro e mi guardar.
    Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
    Bisbigliaron vèr’ me co ‘l capo chino —
    Perché non scendi ? Perché non ristai ?
    Fresca è la sera e a te noto il cammino.
    Oh sièditi a le nostre ombre odorate
    Ove soffia dal mare il maestrale:
    Ira non ti serbiam de le sassate
    Tue d’una volta: oh non facean già male!
    Nidi portiamo ancor di rusignoli:
    Deh perché fuggi rapido cosí ?
    Le passere la sera intreccian voli
    A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! —
    — Bei cipressetti, cipressetti miei,
    Fedeli amici d’un tempo migliore,
    Oh di che cuor con voi mi resterei—
    Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !
    Ma, cipressetti miei, lasciatem’ire:
    Or non è piú quel tempo e quell’età.
    Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
    Ma oggi sono una celebrità.
    E so legger di greco e di latino,
    E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
    Non son piú, cipressetti, un birichino,
    E sassi in specie non ne tiro piú.
    E massime a le piante. — Un mormorio
    Pe’ dubitanti vertici ondeggiò
    E il dí cadente con un ghigno pio
    Tra i verdi cupi roseo brillò.
    Intesi allora che i cipressi e il sole
    Una gentil pietade avean di me,
    E presto il mormorio si fe’ parole:
    — Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.
    Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
    Che rapisce de gli uomini i sospir,
    Come dentro al tuo petto eterne risse
    Ardon che tu né sai né puoi lenir.
    A le querce ed a noi qui puoi contare
    L’umana tua tristezza e il vostro duol.
    Vedi come pacato e azzurro è il mare,
    Come ridente a lui discende il sol!
    E come questo occaso è pien di voli,
    Com’è allegro de’ passeri il garrire!
    A notte canteranno i rusignoli:
    Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
    I rei fantasmi che da’ fondi neri
    De i cuor vostri battuti dal pensier
    Guizzan come da i vostri cimiteri
    Putride fiamme innanzi al passegger.
    Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
    Che de le grandi querce a l’ombra stan
    Ammusando i cavalli e intorno intorno
    Tutto è silenzio ne l’ardente pian,
    Ti canteremo noi cipressi i cori
    Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
    Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
    Te ventilando co ‘l lor bianco velo;
    E Pan l’eterno che su l’erme alture
    A quell’ora e ne i pian solingo va
    Il dissidio, o mortal, de le tue cure
    Ne la diva armonia sommergerà. —
    Ed io—Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
    La Tittí — rispondea; — lasciatem’ire.
    È la Tittí come una passeretta,
    Ma non ha penne per il suo vestire.
    E mangia altro che bacche di cipresso;
    Né io sono per anche un manzoniano
    Che tiri quattro paghe per il lesso.
    Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —
    — Che vuoi che diciam dunque al cimitero
    Dove la nonna tua sepolta sta? —
    E fuggíano, e pareano un corteo nero
    Che brontolando in fretta in fretta va.
    Di cima al poggio allor, dal cimitero,
    Giú de’ cipressi per la verde via,
    Alta, solenne, vestita di nero
    Parvemi riveder nonna Lucia:
    La signora Lucia, da la cui bocca,
    Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
    La favella toscana, ch’è sí sciocca
    Nel manzonismo de gli stenterelli,
    Canora discendea, co ‘l mesto accento
    De la Versilia che nel cuor mi sta,
    Come da un sirventese del trecento,
    Piena di forza e di soavità.
    O nonna, o nonna! deh com’era bella
    Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
    Ditela a quest’uom savio la novella
    Di lei che cerca il suo perduto amor!
    — Sette paia di scarpe ho consumate
    Di tutto ferro per te ritrovare:
    Sette verghe di ferro ho logorate
    Per appoggiarmi nel fatale andare:
    Sette fiasche di lacrime ho colmate,
    Sette lunghi anni, di lacrime amare:
    Tu dormi a le mie grida disperate,
    E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
    — Deh come bella, o nonna, e come vera
    È la novella ancor! Proprio cosí.
    E quello che cercai mattina e sera
    Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
    Sotto questi cipressi, ove non spero,
    Ove non penso di posarmi piú:
    Forse, nonna, è nel vostro cimitero
    Tra quegli altri cipressi ermo là su.
    Ansimando fuggía la vaporiera
    Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
    E di polledri una leggiadra schiera
    Annitrendo correa lieta al rumore.
    Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
    Rosso e turchino, non si scomodò:
    Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
    E a brucar serio e lento seguitò. 

Nella piazza di San Petronio


  • Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
    e il colle sopra bianco di neve ride.
    È l’ora soave che il sol morituro saluta
    le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo;
    le torri i cui merli tant’ala di secolo lambe,
    e del solenne tempio la solitaria cima.
    Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
    e l’aer come velo d’argento giace
    su ‘l foro, lieve sfumando a torno le moli
    che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
    Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
    con un sorriso languido di viola,
    che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
    par che risvegli l’anima de i secoli,
    e un desio mesto pe ‘l rigido aere sveglia
    di rossi maggi, di calde aulenti sere,
    quando le donne gentili danzavano in piazza
    e co’ i re vinti i consoli tornavano.
    Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
    un desiderio vano de la bellezza antica. 

San Martino


  • La nebbia a gl’irti colli
    Piovigginando sale,
    E sotto il maestrale
    Urla e biancheggia il mar;
    Ma per le vie del borgo
    Dal ribollir de’ tini
    Va l’aspro odor de i vini
    L’anime a rallegrar.
    Gira su’ ceppi accesi
    Lo spiedo scoppiettando:
    Sta il cacciator fischiando
    Su l’uscio a rimirar
    Tra le rossastre nubi
    Stormi d’uccelli neri,
    Com’esuli pensieri,
    Nel vespero migrar.

La mietitura del turco


  • Il Turco miete. Eran le teste armene
    Che ier cadean sotto il ricurvo acciar:
    Ei le offeriva boccheggianti e oscene
    A i pianti de l’Europa a imbalsamar.
    Il Turco miete. In sangue la Tessaglia
    Ch’ei non arava or or gli biondeggiò :
    —Aia—diss’ei—m’è il campo di battaglia,
    E frustando i giaurri io trebbierò.—
    Il Turco miete. E al morbido tiranno
    Manda il fior de l’elleniche beltà.
    I monarchi di Cristo assisteranno
    Bianchi eunuchi a l’arèm del Padiscià.

    Giugno 1897

Pianto antico


  • L’albero a cui tendevi
    La pargoletta mano,
    Il verde melograno
    Da’ bei vermigli fiori
    Nel muto orto solingo
    Rinverdì tutto or ora,
    E giugno lo ristora
    Di luce e di calor.
    Tu fior de la mia pianta
    Percossa e inaridita,
    Tu de l’inutil vita
    Estremo unico fior,
    Sei ne la terra fredda,
    Sei ne la terra negra;
    Né il sol piú ti rallegra
    Né ti risveglia amor.

 

Plebiscito


  • Leva le tende, e stimola
    La fuga de i cavalli;
    Torna a le pigre valli
    Che il verno scolorò!
    Via! su le torri italiche
    L’antico astro s’accende:
    Leva, o stranier, le tende!
    Il regno tuo cessò.
    Amor de’ nostri martiri,
    De i savi e de’ poeti,
    Da i santi sepolcreti
    La nuova Italia uscì:
    Uscì fiera viragine
    De le battaglie al suono,
    E la procella e ‘l tuono
    Su ‘l capo a lei ruggì.
    Levò lo sguardo; e splendida
    Su ‘l combattuto lido
    Mandò a’ suoi figli un grido
    Tra l’alpe infida le ‘l mar:
    E di ridesti popoli
    Fremon le valli e i monti,
    E su l’erette lfronti
    Un sangue e un’ alma appar.
    Già più non grava i liberi
    Viltà di cor le ciglia:
    Siam l’itala famiglia
    Cui Roma il segno diè.
    La forte Emilia abbracciasi
    A la gentil Toscana:
    Legnano e Gavinana
    Sola una patria or è.
    L’ombre de’ padri sorgono
    Raggianti in su gli avelli;
    Il sangue de’ fratelli
    Da’ campi al ciel fumò.
    Già sotto il piede austriaco
    Bolle lampeggia e splende:
    Leva, o stranier, le tende:
    Il regno tuo cessò.
    Piena di fati lun’aura
    Da i roman colli move;
    La terra e il ciel commove
    Le tombe e le città.
    In ogni zolla, o barbaro,
    A te una pugna attesta
    L’antica età ridesta
    Con la novella età.
    Vedi: Crescenzio i tumuli
    Schiude nel suol latino:
    Levato in piè Arduino
    Incalza il nuovo Otton.
    T’incalza il sasso ligure,
    La siciliana squilla;
    E Procida le Balilla
    Accende la tenzon.
    Ecco: Ferruccio l’impeto
    Ed il furor prepara:
    Lo stuol di Montanara
    Intorno a lui si tien.
    Ne i dolor lunghi pallido
    Ecco il sabaudo Alberto:
    Gittato ha il manto e ‘l serto,
    Sol con la spada ei vien
    A’ varchi infidi cacciano
    I tuoi destrieri aneli
    Poerio con Mameli,
    Manara e Rosarol.
    Nero vestiti affrontano
    Te del Carroccio i forti.
    Tornano i nostri morti,
    Tornano a’ rai del sol.
    De i vecchi e nuovi martiri
    La voce si diffonde,
    E un grido sol risponde
    L’Arno la Dora il Po.
    Sola una mente e un’anima
    Tutta l’Italia accende:
    Leva, o stranier, le tende!
    Il regno tuo cessò.
    E tu, signor de’ liberi,
    Re de l’Italia armato,
    Ne i voti del senato,
    Ne ‘l grido popolar,
    Sorgi, Vittorio: a l’ultima
    Gloria de’ regi ascendi;
    Al popolo distendi
    La mano, ed a l’acciar.
    T’accomandiamo i pubblici
    Diritti e le fortune,
    I talami e le cune,
    Le tombe de’ maggior:
    Vieni, invocato gaudio
    A i tardi occhi de’ padri,
    Speranza de le madri,
    De’ baldi figli amor.
    Vieni: anche i nostri parvoli
    A fausti dì crescenti
    Te con i dubbi laccenti
    Chiaman d’Italia re.
    Assai splendesti folgore
    Ne’ sanguinosi campi,
    E de la pugna i lampi
    Arsero intorno a te.
    Vieni, guerriero e principe,
    Tra ‘l popolar desio:
    Teco è l’Italia e Dio:
    Chi contro te starà?
    Dio pose te segnacolo
    D’una fatal vendetta:
    Teco l’Italia affretta
    A la promessa età.
    Straniero, a le tue vergini
    Gran lutto allor sovrasta:
    Gitta la spada e l’asta;
    Dio gli oppressor fiaccò.
    De la vendetta il fulmine
    Già l’ale infiamma, e scende.
    Leva, o stranier, le tende!
    Il regno tuo cessò.