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Rocco Scotellaro – Il grano del sepolcro

Rocco Scotellaro

Il grano del sepolcro

E’ cigliato nello stipo il grano
del sepolcro per Gesù bendato.
Verrà giugno, morirà anche mia madre,
voglio portarle spighe spigolate
dentro il suo scialle sacro
che per altro non avrò toccato.
Allora la casa sarà la via che mi mantiene:
non morire, mamma mia, che ti vorrò più bene.

Rocco Scotellaro – A una Madre

Rocco Scotellaro
A una madre

Come vuoi bene a una madre
che ti cresce nel pianto
sotto la ruota violenta della Singer
intenta ai corredi nuziali
e a rifinire le tomaie alte
delle donne contadine?

Mi sganciarono dalla tua gonna
pollastrello comprato alla sua chioccia.
Mi mandasti fuori nella strada
con la mia faccia.
La mia faccia lentigginosa ha il segno
delle tue voglie di gravida
e me le tengo in pegno.

Tu ora vorresti da me
amore che non ti so dare.
Siamo due inquilini nella casa
che ci teniamo in dispetto,
ti vedo sempre tesa
a rubarmi un po’ di affetto,
tu che a moine non mi hai avvezzato.

Una per sempre io ti ho benvoluta
quando venne l’altro figlio di papà:
nacque da un amore in fuga,
fu venduto a due sposi sterili
che facevano i contadini
in un paese vicino.
Allora alzasti per noi lo stesso letto
e ci chiamavi Rocco tutt’e due.

Il grano del sepolcro

Rocco Scotellaro – Ti rubarono a noi come una spiga

Rocco Scotellaro

Ti rubarono a noi come una spiga

Vide la morte con gli occhi e disse:
non mi lasciate morire
con la testa sull’argine
della rotabile bianca.
Non passano che corriere
veloci e traini lenti
ed autocarri pieni di carbone.
Non mi lasciate con la testa
sull’argine recisa da una falce.
Non lasciatemi la notte
con una coperta sugli occhi
tra due carabinieri
che montano di guardia.
Non so chi m’ha ucciso
portatemi a casa,
i contadini come me
si ritirano in fila nelle squadre
portatemi sul letto
dov’è morta mia madre.
O mettetevi qui attorno a ballare
e succhiate una goccia del mio sangue
di me vi farà dimenticare.
Lungo è aspettare l’aurora e la legge
domani anche il gregge
fuggirà questo pascolo bagnato.
E la mia testa la vedrete, un sasso
rotolare nelle notti
per la cinta delle macchie.
Così la morte ci fa nemici!
Così una falce taglia netto!
(Che male vi ho fatto?)
Ci faremo scambievole paura.
Nel tempo che il grano matura
al ronzare di questi rami
avremmo cantato, amici, insieme.
E il vecchio mio padre
non si taglierà le vene
a mietere da solo
i campi di avena?

Rocco Scotellaro – Sera lontana

Rocco Scotellaro
Sera lontana

Batte già il mulo il ferro sopra il ciotolo
mentre si assestano i guanciali
nelle bisaccie. Si parte così
nel Sud per le campagne la mattina,
per la stazione rossa sull’arena
del fiume, ogni anno mi parto anch’io.
Io non so se posso per il mondo
tenere il pugno chiuso nell’attesa
di sgranarlo nel gioco della morra,
di tracannare oltre il desiderio
e sentire la lama del coltello
più calda della fetta rovesciata
sul tavolo a bocconi dei compagni.
Di certo non potrò sentire i canti
le nenie della mamma e le assonnate
tiritere con zampogna e tamburino.
E…La stazione non e già montagna.
Tu non risali sull’imbrunire
con frutti acerbi, paglia e fiasco vuoto
non rivedi le quattro luci a segno
di tutto il lungo borgo addormentato.
Han perduto sapore, spaesato
le tue parole. La tua terra, cara
terra, che lì questa notte respira
con grilli ridestati e le stelle,
passa qui per un inutile inferno.
Tricarico, settembre 1946

Rocco Scotellaro – Sempre nuova è l’alba

Rocco Scotellaro
Sempre nuova è l’alba

Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
*
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera s’acquieti
il nostro vento disperato.
*
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra…
*
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.

Rocco Scotellaro – Passaggio alla città

 

Rocco Scotellaro
Passaggio alla città

 

Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.

 

Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio sorriso.
Addio, come addio? distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo,
querce e cerri affratellati nel vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla e rapata
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?

 

Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di luglio, calda che l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi visitò.
Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle querce,
della terra gialla e rapata.
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna,
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada

Rocco Scotellaro – Noi che facciamo?

Rocco Scotellaro
Noi che facciamo?

Ci hanno gridata la croce addosso i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore.
Neppure dovremmo ammassarci a cantare,
neppure leggerci i fogli stampati
dove sta scritto bene di noi!
Noi siamo i deboli degli anni lontani
quando i borghi si dettero in fiamme
dal Castello intristito.
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?
Ancora ci chiamano fratelli nelle Chiese
ma voi avete la vostra cappella
gentilizia da dove ci guardate.
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo fondo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti
in quello stesso Castello intristito.
Anche le mandrie rompono gli stabbi
per voi che armate della vostra rabbia.
Noi che facciamo?
Noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
Per dove ci portate
lì c’è l’abisso, l’ì c’è il ciglione.
Noi siamo le povere
pecore savie dei nostri padroni.

Rocco Scotellaro – Pozzanghera nera il 18 aprile

Rocco Scotellaro
Pozzanghera nera il 18 aprile

Carte abbaglianti e pozzanghere nere…
hanno pittato la luna
sui nostri muri scalcinati!
I padroni hanno dato da mangiare
quel giorno,(si era tutti fratelli),
come nelle feste dei santi
abbiamo avuto il fuoco e la banda.
Ma è finita, è finita, è finita
quest’altra torrida festa
siamo qui soli a gridarci la vita
siamo noi soli nella tempesta.
E se ci affoga la morte
nessuno sarà con noi,
e col morbo e la cattiva sorte
nessuno sarà con noi.
I portoni ce li hanno sbarrati
si sono spalancati i burroni.
Oggi ancora e duemila anni
porteremo gli stessi panni.
Noi siamo rimasti la turba la turba
dei pezzenti, quelli che strappano ai padroni
le maschere coi denti.

Rocco Scotellaro – Quaresima

Rocco Scotellaro

Quaresima
Quaresima, la vedova pazza
era la pupa col vecchio grembiule
volteggiava al turbine di febbraio
penzoloni da una fune sulla strada.
Bersagli di terribili fanciulli
periti nelle gare a sassaiola:
sfogavano l’ira dei padri neri
per tutte le piogge mancate
e i grani venivano su magri.
Coperto d’uno dei nostri mantelli
anche il cielo era lontano da noi
e avrei voluto vedere
quale parte recitava.
Dietro il recinto dei monti
i cavalloni squarciavano nitriti
in faccia sul mar Ionio
e pure il sole ci cacciava agli occhi
un’ombra vacillante di candela.
Intanto non puoi chiudere la bocca
ai divini germogli della terra.
Fuori il vento che frana sulle porte
sta a suonare la marcia del ribelle,
ma i mandorli sbocciati
picchettano i seminati,
i cavalieri bianchi della morte.
11 febbraio 1948

Rocco Scotellaro – Uomo

Rocco Scotellaro
L’UomoL’uomo che vide suo padre calzare
gli uomini e farli camminare
imparò da quell’arte umile e felice
la meraviglia di servire l’uomo.
L’uomo che crebbe nell’esule villaggio
imparò il coraggio di farsi riconoscere
e di crescere non lontano dai potenti della terra.
L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini
imparò dal fascino della notte
il chiarore del giorno.
Quell’uomo muore. Attorno attorno
alla ceppaia gigantesca che è
agili frullano i vivai che piantò nel mondo.
Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo
e il pane e le scarpe e le case e le macchine
può dire chi era Stalin e la ragione del mondo.
Portici, 9 marzo 1953